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Ontologia del gestore

Dalla panchina al club

 

[Disclaimer: potrebbe contenere teoria]

 

Massimiliano Allegri è un uomo molto carismatico. Il suo accento, la spigliatezza con cui si approccia all’interlocutore, gli aneddoti con cui arricchisce qualsiasi discorso non possono non suscitare simpatia in chiunque sia all’ascolto, e non vale solo per l’ambiente puramente calciofilo. L’uomo è a suo agio con qualsiasi tipo di platea, tanto al club di Sky Calcio quanto alla corte di Fabio Fazio in prima serata Rai. Il modo in cui nell’occasione riuscì a catturare il centro dell’attenzione, addirittura interagendo con la prima fila, seduto appena sulla poltrona come se sentisse l’urgenza di alzarsi durante il suo monologo, avrebbe fatto invidia a qualsiasi stand up comedian. Aveva il pubblico in pugno.

Non stupisce che dopo anni di assenza dagli schermi il suo show nella casa della vecchia volpe di Caressa abbia fatto discutere per giorni; su un palcoscenico del genere, nonostante i timidissimi tentativi di un Piccinini guastafeste, è stato inarrestabile. Su un tema in particolare però voglio soffermarmi. Non è la prima volta che il livornese si è lasciato andare a dissertazioni che vanno oltre il campo, riflettendo sulla figura stessa dell’allenatore. Tra un ridimensionamento del concetto di schema e un paragone con altri sport (o altri mammiferi), l’antiteorico Max ha più volte chiarito come nella sua Weltanschauung il miglior risultato a cui tale stregonesco personaggio può ambire sia in ultima analisi quello di fare meno danni possibile; i calciatori sono i veri protagonisti dello sport, coloro che in campo passano il pallone, è nelle loro azioni che si svolge il gioco. In uno scenario del genere, condizionato dal libero arbitrio di una trentina di persone, qualsiasi tipo di lavoro preventivo perde di valore.

“Quando mi chiedono di spiegare come si fa l’allenatore io rispondo che non si spiega. Come fai? Innanzitutto ci sono due allenatori. Quello dal lunedì al sabato che fa un tipo di mestiere; la domenica è tutta un’altra cosa! Non c’entra niente con tutto quello che hai fatto durante la settimana, perché la partita è fatta di situazioni, gestione… Che ne sai che dopo cinque minuti non ti buttano fuori uno? La gestione dell’imprevisto non rientra né nella tattica, né nella tecnica… Un allenatore vive di sensazioni.”

On s’engage, et puis on voit. Dall’intuizione filosofica allegriana emerge quindi il napoleonico ritratto del gestore.

Seguitemi su questa strada: l’indice della bravura di un allenatore è la capacità di avere, nel caos primordiale che è il gioco del calcio, la giusta intuizione. Cosa è giusto? Senza dubbio, tutto quello che ti fa vincere la partita. Ma se il calcio è caos, come fa l’allenatore a sapere prima quale è la giusta intuizione? Il bravo allenatore è forse un tipo molto fortunato?

Ma no! La capacità del bravo allenatore, non tramandabile -pare- tramite il mero nozionismo, è quella di saper leggere i segni. Che siano nella gestualità dei giocatori, nel modo in cui la palla si muove in campo, in segni nelle viscere di animali sacrificali, l’universo manda segnali, e l’abilità di un bravo coach è quello di saperli cogliere ed interpretare correttamente, divenendo un tramite tra questo mondo e l’altro. Il bravo allenatore è un oracolo.

Assolutamente, mi si dirà, viviamo in un universo predeterminato. Quando un allenatore fa una sostituzione è semplicemente la conseguenza di un copione già scritto, sia che quel battito d’ali causi l’uragano della vittoria o della sconfitta. Non esistono bravi allenatori. Il tempo è circolare. Smetti di lottare.

E se esistesse una setta di pochi eletti in grado di plasmare la realtà virtuale in cui viviamo, in modo da fare sì che ad una scelta, una qualsiasi, corrisponda a prescindere un trionfo? I bravi allenatori hanno visto quanto è profonda la tana del Bianconiglio, forse?

Io credo molto più probabile che Max Allegri sia tutte queste cose, piuttosto che un bravo allenatore.

 


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