🚨SEGUICI IN DIRETTA🚨

Un pessimo ottimo segnale

La settimana juventina, la partita di Napoli e il medio-lungo termine

Scritto da Alessandro Luise  | 

 

La partita di sabato sera tra Napoli e Juventus non saprei etichettarla in altro modo se non come un pessimo ottimo segnale per tutto il nostro ambiente. E qui di seguito cercherò di spiegare il perché di una definizione così ossimorica. 

Come sempre, nell’analizzare un match è bene partire dalle indicazioni provenienti da quel che accade immediatamente prima di esso. Ora, che sabato avremmo assistito ad uno schieramento estremamente rimaneggiato a causa dell’impegno dei nazionali sudamericani era cosa ampiamente assodata. Ciò che invece non era previsto - o meglio, ciò che noi tifosi ci riservavamo il diritto di non voler prevedere - è stata l’assenza di Matthijs de Ligt dalla formazione titolare. In un big match di questo calibro è impossibile non rimanere interdetti e amareggiati dall’esclusione di uno dei leader tecnici della squadra, un baby veterano che la Juventus ha acquistato due anni fa con l’obiettivo di affidargli le chiavi della difesa bianconera - si spera - per i prossimi dieci anni (non toglietemi l’ottimismo). 

Soprattutto perché, per Allegri, prendere una decisione così forte significa innanzitutto lanciare un messaggio molto chiaro, evidente durante lo svolgimento dell’intera gara e, come se non bastasse, sottolineato a fine partita dallo stesso Chiellini: l’idea (del mister o del duo B&C, poco cambia) è stata fin da principio impostare il match su un catenaccio prolungato a oltranza, con una difesa bassa, schierata e schiacciata dentro l’area di rigore, nella speranza di riuscire a recuperare palla e ripartire con velocità, basando i contropiedi sulle qualità di Kulu e Morata, e magari pure di rubacchiare un gollonzo alla prima opportunità utile (cosa che poi è avvenuta). In quest’ottica, Allegri ha ben pensato che fosse più proficuo optare per l’usato sicuro (sicuro?), cioè affidarsi all’esperienza dei figliocci fin troppo navigati Chiellini e Bonucci, piuttosto che schierare il giovane De Ligt, difensore che ama coprire ampie porzioni di campo alle spalle e che si esalta nell’anticipare gli attaccanti avversari a 50 metri dalla propria porta. 

Se la partita non si fosse già giocata, e non ne conoscessimo l’andamento, potremmo dire “beh, lasciamo al mister il beneficio del dubbio”. Anche perché - e questo è un leitmotiv che potrebbe accompagnarvi nella lettura di ogni riga di questo articolo - le assenze pesanti imponevano (siamo sicuri?) l’articolazione di un piano gara più attendista e prudente, diverso da quello che ci augureremmo di vedere. Ma ricordiamocelo: anche se a volte sembra difficile crederci, siamo la Juventus (seppur con numerose defezioni), e il solo pensiero di fondare tatticamente uno scontro diretto parcheggiando il pullman - per caso intendeva questo il Presidente quando su Twitter postò la foto dei due bus posizionati davanti a San Siro? - è deprimente e a lungo termine deleterio. 

Chiudendo la parentesi De Ligt, non è stato particolarmente entusiasmante nemmeno vedere il suo ingresso in campo a 30 minuti dalla fine come terzino destro bloccato, soprattutto perché - come s’è visto poi -, tra difficoltà psicologiche del momento, disabitudine nel giocare in quella posizione e (forse) mancanza di stimoli adeguati, la scelta è sembrata mettere parecchio in difficoltà il ragazzo. Certo, diranno alcuni, l’ingaggio pesante dell’olandese in linea teorica dovrebbe bastare a motivarlo. Ma sappiamo bene che nella realtà non è così, che i soldi non sono tutto e che in momenti di difficoltà psicologica e disordine generale (della società, non suo), avere dei punti di riferimento a cui appigliarsi risulta indispensabile. Ed è indubbio che De Ligt non stia vivendo un periodo entusiasmante della sua carriera: non soltanto nella nuova nazionale di Van Gaal dovrà giocarsi la maglia da titolare con De Vrij, ma nella Juventus sta affrontando un’esperienza che lo ha visto progressivamente svilirsi su sé stesso, sballottato da una posizione (di campo) all’altra della difesa, stordito nel suo processo d’evoluzione tecnico-tattico dall’applicazione di sistemi di gioco tra loro incompatibili, proposti (e non sempre attuati) da tre coach diversi in tre anni (4, se contiamo l’ultima stagione all’Ajax). 

Passiamo al match. Non si può nemmeno dire che la gara non sia cominciata secondo il desiderio di Allegri. Pronti via e, al di là della primissima occasione di Politano su errore di diagonale di Pellegrini, siamo stati in grado di muoverci per larghi tratti della prima frazione con ordine e compattezza. In generale, sono stati 45 minuti in cui, posto il chiarissimo piano tattico difensivo, quasi tutti i calciatori bianconeri in campo hanno dato l’idea di sapere cosa fare e come muoversi. Squadra corta, quadrata, pronta a recuperare palla bassa e discretamente lucida nella gestione del possesso finalizzato a risalire dai bassifondi dell’area, con Locatelli abile nel farsi trovare nella giusta posizione e nell’imbucare i compagni con filtranti che noi tifosi non gustavamo da un bel pezzo. Cinico Morata nello sfruttare al meglio la prima vera occasione da gol, su infortunio piuttosto evidente di Manolas. Insomma, un primo parziale svoltosi secondo lo schema previsto di Allegri. Di certo, a facilitarci la vita è stata anche la fragilità di un Napoli pigro nel pressing, distante nella copertura in avanti sul nostro metodista e lento nel far girare palla nella nostra metà campo. 

Ma, così come da anni non riusciamo a mantenere con continuità un’identità di gioco nell’arco dei 90 minuti, allo stesso modo, persino quando esplicitamente e volontariamente decidiamo di entrare in campo senza volto - perché l’anti-calcio rinunciatario proposto sabato è fondamentalmente questo - non siamo in grado di conservare la nostra prestazione attraverso tenuta fisica, applicazione tattica e concentrazione mentale. 

E così inizia il secondo tempo ed è sufficiente l’ingresso di Ounas nella trequarti del Napoli per scombinare il già labile equilibrio juventino: difficile da marcare in fase di non possesso e scaltro nel chiudere le linee di passaggio su Locatelli, l’algerino non necessita di grosse giocate per cambiare volto al match. Allegri non prende contromosse, la Juventus si chiude ancora di più, esaspera la sua rinuncia alla partita, e accade il fattaccio: ennesima papera di Szczesny e risultato compromesso. 

Ora, che non possediamo più la quadratura e la solidità degli anni d’oro a Max dovrebbe essere già sufficientemente chiaro. Ed è altrettanto evidente che in questo momento - momento che si prolunga da almeno quattro anni - non riusciamo a gestire la partita, né alla lunga né nei suoi singoli episodi chiave. E questo è il pessimo, anche se largamente prevedibile, segnale che emerge dalla gara di sabato.

Del resto, però, bisogna anche essere scaltri ed evitare di complicarsi la vita da soli: la strategia “palla lunga e pedalare”, con difesa schiacciata e baricentro basso a 30-40 metri dalla porta, non è esattamente l’emblema della sicurezza, perché, si sa, se ci si porta continuamente gli avversari dentro l’area, prima o poi il rigore, l’incomprensione, il liscio, l’errore, in generale l’episodio, capitano. 

Sì, lo sappiamo Max, gli episodi decidono le gare. Ma la caratura di un allenatore risiede nella sua abilità di strutturare e intessere una trama di gioco - e, alla lunga, un’identità - tale non da giungere all’eliminazione completa dell’evento fortuito sfavorevole - il che è impossibile -, quanto piuttosto da pervenire alla capacità, una volta sbagliato, di rimediare allo svantaggio con idee, personalità, qualità. Perché gli infortuni di Szszcesny - la cui drammatica situazione psico-fisica è palese - sono sicuramente evitabili e, alla stregua dello stop errato di Dybala in un Lazio-Juve dello scorso anno, possono costare caro. Ma è proprio per limitare gli effetti nefasti dell’imprevedibile episodio contingente - che può sempre occorrere - che si lavora tenacemente durante l’anno, non solo e non tanto per evitare che esso accada. 

Se in questa settimana di sosta per le nazionali e di matrimoni, il tempo di allenarsi e di allenare - oltre che i giocatori stessi - è fisiologicamente mancato, ragion per cui non dovete leggere tra le mie righe l’intenzione di una crociata contro Allegri limitata a quel che abbiamo visto sabato, ciò su cui invece ha più senso soffermarsi è lo sfondo ideologico che sta dietro alla partita e alla sua preparazione. Nella stessa settimana in cui il Direttore Sportivo Cherubini ha rilasciato un’intervista a Tuttosport che è apparsa come il manifesto programmatico del futuro della Juventus, incentrato sulla gioventù, sul dinamismo e sulla capacità di creare valore, Allegri se ne è uscito con delle affermazioni che avrebbero fatto rabbrividire anche il più conservatore degli allenatori anni ’70: “Fagioli e Ranocchia sono passati dalla seconda squadra alla Serie B, come succedeva 30 anni fa. Adesso invece chi stoppa bene è ritenuto da Pallone d'Oro”. 

Quasi come a togliersi di dosso - peggiorando la situazione - le critiche e i dubbi di chi non lo ritiene il mister adatto a far crescere i giovani talenti: e del resto, come biasimarli di fronte a simili uscite che non hanno né capo né coda. Già più comprensibile, se indirizzata a coloro che effettivamente non sono più nel fiore della gioventù (Rabiot? Bernardeschi? Ma chi è che li considererebbe dei giovani?), è la sveglia data oggi in conferenza stampa: ma su questo punto nutro dei seri dubbi.

Che a livello comunicativo la Juventus debba crescere moltissimo, a partire soprattutto dal suo Presidente, è cosa evidente a chiunque guardi la questione con uno sguardo e con uno spirito critico. Ciò che la Juventus però non si può permettere è di sciorinare nell’arco di poche ore una palese contraddizione in termini - perché così è apparso agli occhi dei più il botta e risposta indiretto tra le parole di Cherubini (sulla cui veridicità si può discutere) e Allegri - che ne lacera l’immagine pubblica e che acuisce le perplessità di chi in essa non riesce più a trovare fiducia.

Stupisce vedere Max in difficoltà dal punto di vista comunicativo? Bah, forse sì forse no: perlomeno fino alle litigate con Adani, è sempre stato universalmente considerato - e per alcuni lo è tuttora - alla stregua di un Vate in grado di esplicitare i suoi oracoli in forma di aforismi e perle di saggezza. Ma la realtà è che le sue difficoltà retoriche di articolazione di un limpido pensiero tecnico - magari esasperate dai due anni di assenza dalle panchine - sono sempre state nascoste dai risultati raggiunti in carriera, oltre che dall’assenza totale di domande scomode durante le conferenze stampa (ma questo è un punto che non voglio toccare ora). 

Allo stesso modo, dunque, sorprende fin lì il suo nervosismo a fine gara, testimoniato dallo spiacevole siparietto a telecamere spente con Spalletti. La tensione e l’irascibilità già evidenti nei giocatori anche nelle due partite precedenti sono sì un brutto segnale, ma a peggiorare drasticamente il quadro è la perdita di signorilità da parte di un allenatore che ha sempre fatto della calma il suo mantra psico-fisico: perché a mantenere il sangue freddo nelle situazioni di gioia e di vittoria sono capaci tutti; è nelle difficoltà, quando si è sotto pressione, che bisogna possedere la lucidità di analizzare la situazione a 360° senza andare alla ricerca di capri espiatori esterni ed interni, l’onestà intellettuale di ammettere i propri errori, e la forza delle idee per ripartire verso traguardi importanti. Questa lucidità, questa onestà e questa forza ci sono? 

Domande pesanti che esigono una risposta immediata: anche perché, nel frattempo, le avversarie corrono, non solo e non tanto dal punto di vista dei risultati, quanto piuttosto a livello di condizione atletica, intensità e proposta tecnica. 

Nel 2021 vincere e convincere attraverso il gioco e l’organizzazione è la meta che ogni tifoseria e ogni società dovrebbero porre al proprio orizzonte. 

Diventa difficile anche solamente ipotizzare un futuro che si avvicini a tale ideale, quando si sentono ancora i pezzi grossi della Juventus affermare che si deve vincere soffrendo, che si possono dominare i match senza avere la palla tra i piedi, che è sufficiente conquistare i trofei di corto muso, che la prestazione è figlia del risultato e non viceversa. 

Ma, Del Piero docet, è proprio qui che la nostra squadra sta mancando da anni: non nei risultati e nella classifica, ma nel rendimento. Da questa amara constatazione bisogna ripartire con ancor più convinzione, soprattutto perché - e giustifico così la presenza del termine “ottimo” nel titolo del pezzo - questo inizio di stagione ha dimostrato che non possiamo muoverci in nessun’altra direzione. Che non possiamo restaurare nulla di ciò che era. Che non abbiamo altra scelta se non ricostruire tecnicamente la rosa dalle fondamenta. E, nel pessimismo in cui siamo immersi in questo momento, non può esservi notizia migliore.

 

 


💬 Commenti